Più di ogni altra cosa in lui potè lo sguardo: illuminava come un neon, ma sapeva essere severo. Poteva fare racconti lunghissimi senza aprire parola. Severo, burbero, padre della patria, un ruolo che lo compiaceva anche. Ma aveva il dono di saper piangere.
Come racconta il giudice Mario Almerighi, biografo ufficiale di Sandro Pertini. Era il 1974, Almerighi mise mano a quello che sarebbe passato alla storia come lo scandalo petroli. Il magistrato, già presidente della Fondazione Sandro Pertini e oggi alla guida dell’Associazione Sandro Pertini Presidente, si presentò nell’ufficio del Presidente della Camera Pertini per far capire di cosa si trattasse: “Gli dissi che in quell’elenco di uomini corrotti c’erano anche compagni del Partito socialista. Pertini pianse, per poi sussurrare: “Andate avanti, la legalità prima di tutto”. Il primo incontro con il futuro Presidente, che divenne poi anche un amico, fu una lezione di condotta civile, una pagina sincera di vita di un uomo che non tornerà più. “Pertini – continua Almerighi – era soprattutto una persona di cultura. Lo dico a malincuore, ma la cultura politica degradata che abbiamo ora non può più produrre uomini come lui”. Per capire di che pasta fosse fatto bisogna andare a scovare nelle sue biografie, giovanissimo carcerato, disoccupato esiliato in Francia, socialista senza nessuno schema. E così ha fatto Almerighi, che nel libro “La politica delle mani pulite”, raccoglie lettere e testimonianze. Come la lettera in cui un giovanissimo Pertini in carcere scrive alla madre sgridandola per aver chiesto l’indulgenza a Mussolini. “Era uomo d’un pezzo. Dopo quel primo incontro, ci vedemmo spesso, io giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura e lui Presidente della Repubblica. Appena arrivato a Roma, raccontò di quando dovette cacciare a male parole un imprenditore venuto a chiedere una tangente”. Gli aveva gridato: uscite al più presto o vi prendo a calci nel sedere, attaccandosi con i denti a quella che era la sua dignità di uomo di Stato. E così una volta arrivato al Colle, Pertini parlava nello stesso modo, senza nessuna solennità, ma soprattutto parlava spesso e con un linguaggio che arrivava nelle case delle persone. A quel signore l’Italia si aggrappò alla vigilia di un’estate del 1978 che aveva già consumato la strage di via Fani e il delitto Moro. “Lo vedevo al Csm – continua Almerighi – ogni volta che moriva un magistrato. Era furioso, e diceva sempre: noi non abbiamo fatto la lotta partigiana per vedere tutto questo”.
In quel periodo di pallottole e sangue, di un Paese spaventato che a malapena riusciva a blaterare “né con lo Stato né con le Brigate Rosse”, lui una cosa la chiarì subito: io sto con lo Stato. Fu una rivoluzione, quella del cittadino Sandro Pertini. Il vocabolario grillino non esisteva, ma lui già diceva di “essere un cittadino al Quirinale”, come scrisse Giampaolo Pansa nel 1990. Mantenne – e questo non se lo aspettava nessuno _- la nave Italia ormeggiata al molo, senza mai – lui nato vicino a Savona, col libeccio nel sangue – cedere un passo. Più il vento tirava forte e più lui stringeva i denti e la pipa. “C’è la tendenza – dice Almerighi – a considerare Pertini un diverso, un anomalo della politica italiana. Attenzione però a non usarlo come discorso riduttivo, per sminuire la sua persona. E’ stato un personaggio diverso , che ha dato stabilità e credibilità alle istituzioni come nessun altro. Magari i “normali” di oggi diventassero diversi come lui”. Ed era un semplice. L’uomo che quando seppe dell’elezione a Presidente della Repubblica, uscì di casa in piazza Trevi e andò a piedi fino in Quirinale, stringendo le mani della gente. “Ero in quella piazza per celebrare il trentennale della morte di Pertini e ho parlato con i commercianti, le persone che abitano lì. Tutti lo ricordano come fosse ieri”.
Si scomponeva, Pertini, ma in un attimo si ricomponeva. Piangeva in piazza Maggiore, a Bologna, accanto al sindaco Renato Zangheri, per i funerali delle vittime della strage. Pianse come non lo videro mai quel giorno. Ma era appunto la storia. Poteva fulminarti con uno sguardo che profumava come l’incenso e abbagliava come un’insegna. “Mi piace ricordare – conclude Almerighi – di quel giorno al Csm, quando si decideva della sorte di Ugo Zilletti, implicato nell’inchiesta sulla P2”. Una discussione tesa fino all’ultimo e molti che cercano di convincere Pertini ad aspettare la fine delle indagini. “Io feci un discorso a garanzia della credibilità del CSM , non ammettevo tentennamenti. Il Presidente disturbato da mille voci era distratto e mi permisi di dirgli: “Mi deve ascoltare, è importante”. Lo sapeva. Rispose: “Almerighi sono dalla sua parte. Cercano di tirarmi per la giacchetta, ma la mia posizione è sempre quella”. Era la sincerità di un uomo che fece grande un’Italia sull’orlo del precipizio. Padre austero, capace di parole forti quando serve e di lacrime quando la vita non lascia altra scelta. Come il 7 giugno del 1984, quando in ospedale a Padova assistette alla morte di Berlinguer. Gli tremavano le gambe il giorno in cui i medici dissero che no, non c’era più niente da fare. Si caricò la bara del compagno Enrico sulle spalle e sull’aereo presidenziale, decollarono dall’aeroporto di Tessera alle 19.40. In una piazza San Giovanni, il 13 giugno, con un milione di persone, si prese due milioni di applausi. E pianse ancora.