di Marcello Marinari
Ci sono ricordi che non si
cancellano, che riemergono quando meno ce lo aspettiamo, flash che la nostra
mente, la nostra memoria ci rimanda dal passato, indelebili, come un fermo
immagine.
Nel caso di Mario Almerighi,
però, questo flash, questa immagine che la mia mente proietta non appena parlo
di lui o ne sento parlare, non è riemerso solo a distanza di tempo, come accade
a chi invecchia, specie per la memoria della propria infanzia.
Ricordo perfettamente, ed ho
sempre ricordato, quando e dove ho conosciuto Mario, un ricordo che non mi ha
mai lasciato, e che non dipende, quindi, da ciò che con il passare del tempo ha
significato e significa ancora per me la nostra amicizia; dipende invece dall’importanza
che quell’incontro ebbe già allora, nel momento stesso in cui avvenne.
Ero appena entrato in
magistratura, un’avventura della quale non capivo ancora bene tutte le
implicazioni, ma che mi affascinava e mi spaventava allo stesso tempo, ed ero
alla ricerca di modelli, come spesso capita ad un giovane, un giovane ingenuo
ed inesperto come me, per giunta, che aveva affrontato il concorso per
l’insistenza affettuosa ma implacabile di un magistrato che mi conosceva nei
miei primissimi passi da procuratore legale.
Un giorno lessi su una rivista
un’intervista di Mario, componente del Consiglio Superiore della Magistratura,
un’intervista che mi colpì moltissimo, a partire dalla foto di Mario, la foto
di un giovane, e di un giovane sorridente, così diversa dallo stereotipo del
magistrato di allora, un giovane che diceva con molta sicurezza, ma senza
spavalderia o arroganza, che lui e gli altri magistrati eletti con lui
avrebbero fatto “grandi cose”, nel senso dell’impegno a rinnovare la
magistratura, un impegno civile, così mi sembrò, prima ancora che professionale,
e che corrispondeva alla sua personalità, come ho poi potuto esperimentare.
Era un’immagine molto diversa da
quella che avevo avuto fino ad allora dei magistrati, un’immagine la cui
credibilità derivava però anche dalle clamorose inchieste genovesi delle quali
avevo letto qualche anno prima, che mi comunicò entusiasmo, come è avvenuto
tante altre volte, parlando con Mario, o ascoltandolo.
Ho detto che ero alla ricerca di
modelli, di esempi da imitare, dai quali imparare, ed aggiungo: non di padrini,
ed è in questa prospettiva che mi proposi di trovare il modo di conoscerlo,
avendo letto di un convegno al quale avrebbe partecipato.
Ricordo che lo avvicinai dentro
il ristorante dove eravamo andati tutti nella pausa dei lavori, per
presentarmi, senza neppure scusarmi di bloccarlo, un po’ maleducatamente, nel
corridoio, tanto ci tenevo a conoscerlo; Mario, con la sua consueta gentilezza
e disponibilità, non si sottrasse, e da lì è cominciata la nostra conoscenza,
divenuta poi una grande amicizia, che non si è mai interrotta e non ha mai
avuto momenti di crisi.
Lo andavo a trovare a Genova, dopo
avere iniziato a lavorare a Biella come Pretore, e poi ci ritrovammo in molte occasioni,
quando era ormai a Roma, tra convegni e riunioni associative, e cominciò
l’esperienza di quel gruppo di magistrati che avrebbero poi costituito il
movimento dei “verdi”, come furono chiamati dal colore del primo documento
pubblicato, dei quali Mario era uno degli esponenti più importanti ed
autorevoli.
Fu un’esperienza bellissima, nei
suoi momenti fondativi, per un giovane magistrato come me che avvertiva
l’esigenza di una modernizzazione della magistratura, senza rigidità
ideologiche, ma con forti ideali, nella quale il tradizionale (ed un po’ vago,
benché nobile) concetto di missione si accompagnava a quello di competenza
professionale e di efficienza, anche se non di efficientismo manageriale, come pure
qualcuno, tra i magistrati, diceva sprezzantemente, e di un nuovo rapporto tra
la magistratura e la società, dopo la dura lezione del referendum sulla
responsabilità dei magistrati.
Mario, con il suo contagioso
entusiasmo, impersonificava perfettamente le mie aspettative e le mie aspirazioni,
anche se poi, nello sviluppo di quel bellissimo progetto fondativo, dopo la
fase semiclandestina e la rottura con la corrente alla quale aderivamo, ci ritrovammo su due posizioni diverse, quanto
alla fisionomia che avremmo voluto dare a questa nuova formazione, soprattutto
per quanto riguardava la presenza di non magistrati, ed i limiti che ciò
avrebbe comportato per la partecipazione alle vicende associative, soprattutto
per le elezioni, una prospettiva che io non vedevo con sfavore, mentre Mario
era fermamente convinto che ciò avrebbe determinato l’irrilevanza della nuova
formazione. Molti anni dopo, con la consueta onestà intellettuale, mi disse che
forse avevo visto bene io, allora.
Ma questa differenza di
posizioni, e quelle che talvolta si manifestarono anche su altri punti, non
hanno mai avuto alcuna conseguenza sui nostri rapporti, anche quando, proprio
per effetto del sempre maggiore allontanamento dal progetto originario, la mia
partecipazione attiva si fece meno intensa, benché il movimento fosse sempre il
mio punto di riferimento, come magistrato associato; Mario non lo avrebbe mai
fatto, lui non si dava mai per vinto e combatteva le sue battaglie senza
perdersi d’animo.
Forse le cose avrebbero potuto
cambiare, per me, intendo, ma non solo, a pensarci bene, con la nomina di Mario
alla Presidenza dell’associazione, che appresi con grande gioia e sorpresa una
domenica mattina leggendo il giornale, perché era un po’ di tempo che non ci
sentivamo e che non conoscevo i dettagli delle vicende associative.
Sappiamo tutti come è andata, e
ricordo che allora, mentre stavo partendo per un impegno all’estero (anche in
questo caso il flash-io che scrivo in una camera d’albergo) sentii il bisogno
di scrivergli un biglietto, invece di telefonargli, come pure feci in seguito,
proprio per attestare in modo più forte la mia vicinanza. Penso che questa
vicenda, per come me ne ha poi parlato Mario e per il tono che senti nelle sue
parole, sia stata un punto di svolta nella sua vita, almeno nella sua vita di
magistrato impegnato con grande passione nelle vicende associative, e
curiosamente (o forse no), fu proprio da allora che riprendemmo a sentirci più
regolarmente.
Aggiungo che sono certo che
questa vicenda sia stata fonte di grande dolore, e di sofferenza anche fisica
per lui, e non certo per la rinuncia alla poltrona presidenziale.
Qualche volta lo andavo a trovare
quando ero a Roma, e tante volte ci sentivamo al telefono, spesso mentre era a
Bracciano, nella sua dimensione più privata.
Stava sviluppando la sua
vocazione di scrittore, che ci ha regalato dei racconti-documento sempre
profondi, mai pesanti però, e spesso anche pieni di ironia e di aneddoti.
In questa dimensione ecco
riaffiorare quella passione civile che avevo intuito già da quel nostro lontano
primo incontro; a differenza di tanti altri magistrati che scrivono libri, lui
scriveva per testimoniare, per contrastare la perdita collettiva della memoria
dei fatti, e lo faceva senza derive autocelebrative, senza retorica;
raccontava, certo, con qualche concessione narrativa, ma sempre fedele alla
verità dei fatti, per come l’aveva conosciuta.
Aveva trovato una dimensione che
lo appassionava, come sentivo dalla sua voce quando parlavamo al telefono; e
che gli aveva dato anche la voglia di affrontare un’altra esperienza, quella
della Presidenza di Civitavecchia, con grande entusiasmo e con la speranza di
fare ancora qualcosa di valido e di importante, non per la sua “carriera”, ma
per la collettività.
Ci sentivamo mentre io ero a
Montepulciano, in quella che sarebbe stata la mia ultima sede di magistrato, e
ci scambiavamo opinioni e sensazioni; mi parlava non solo del lavoro, ma anche
della barca, perché condivideva con me la passione per il mare. Fu entusiasta
di aiutarmi a pubblicare un libro su Pertini, con alcuni amici dell’Elba, sul
processo che aveva subito a Portoferraio durante in fascismo, quel Pertini che
aveva conosciuto ed ammirato tanto.
Fu in questo periodo che ci
incontrammo per l’ultima volta purtroppo, ma allora non avrei potuto
immaginarlo; mi invitò alla presentazione di un suo libro, a Capalbio, e fui
felice che avesse voluto che prendessi la parola per parlarne; lo ricordo
davvero contento, circondato da persone che amava, e che lo amavano; fu un
momento molto bello.
Mario non è mai invecchiato
mentalmente, è sempre rimasto capace di sognare e di sperare, malgrado tante
delusioni, e disillusioni, che lo hanno accompagnato anche nell’ultimo periodo
del suo lavoro di magistrato, di Presidente di Tribunale; ricordo che lo sentii
non solo amareggiato, ma quasi incredulo, non riusciva a comprendere quello che
stava succedendo, e se non fosse stato così deluso e amareggiato non avrebbe
preso la decisione di lasciare.
Mentre scrivo queste righe
me lo vedo ancora davanti, sorridente; a questo punto mi direbbe di smetterla,
e lo faccio, ma con l’impegno di continuare a ricordarlo non con cerimonie
commemorative, ma cercando di conservarne sempre la memoria, insieme ai tanti
che lo amano, proseguendo, per quanto ne sono capace, sulla stessa strada.