di Adelmo Manna
Il
24 marzo ricorre l’anniversario del decesso del giudice Mario Almerighi, nostro
caro amico, e grande animatore anche di progetti culturali sulla giustizia, su
cui sono confluite le Associazioni Isonomia e Sandro Pertini
Presidente che ora stiamo gestendo sotto la presidenza dei conss. Vito
D’Ambrosio e Leo Agueci.
Si
ritiene di iniziare questo ricordo con una data ben precisa, il 16 aprile 1988,
quando Mario Almerighi, assieme, fra gli altri, proprio a Leo Agueci e Vito
D’Ambrosio, si staccarono da Unicost per formare un nuovo raggruppamento di
magistrati, intitolato Movimento per la Giustizia.
Nell’ambito
di coloro che diedero luogo al nuovo raggruppamento si annoveravano anche
magistrati dal sottoscritto conosciuti personalmente come Luigi De Ficchy,
Enrico Di Nicola, Franco Ionta, Maria Monteleone, Ciro Riviezzo ed Andrea
Vardaro, mentre altri hanno raggiunto una notorietà nazionale anche a causa di
tragici eventi, come il cons. Giovanni Falcone.
In
questa situazione, siamo di fronte alla creazione delle c.d. correnti in
magistratura, per cui la divisone dell’ANM – di cui Mario Almerighi è stato
presidente, seppur per un sol giorno – appunto in correnti, è spesso stata
liquidata sbrigativamente come “politicizzazione”[1]. Un’analisi più attenta,
però, dimostra che la divisione in correnti è espressione del pluralismo del
corpo giudiziario, ma non corrisponde affatto alla proiezione diretta dei
partiti presenti sulla scena politica nazionale. Naturalmente si sono
verificati tentativi di condizionamento che hanno percorso, nello scorrere degli
anni, i diversi gruppi, ma non ne hanno mai segnato l’identità complessiva.
Ciò
che, tuttavia, caratterizza la tensione immanente nell’associazionismo giudiziario
è quella “tra chiusura corporativa e presa di coscienza del ruolo
dell’istituzione giudiziaria nella società democratica”[2].
Quando,
infatti, prevale il ripiegamento corporativo, operano le peggiori logiche
correntizie come è indicato dalla pressione sul CSM per una gestione
clientelare e lottizzatoria degli incarichi direttivi[3].
Laddove,
invece, prevalga la coscienza del ruolo istituzionale della magistratura, si
determinano larghe convergenze, per cui, attraverso la dinamica fra queste due
sponde di segno opposto, può leggersi la vicenda dell’associazionismo dagli
anni ’80 del Secolo breve in poi.
Fatta
questa doverosa precisazione, cerchiamo di operare un raffronto tra il
presidente Almerighi -con tutto ciò che ha rappresentato nel corso degli anni –
ed una figura decisamente opposta a lui, cioè il dott. Luca Palamara, che è
stato dall’ANM espulso dalla magistratura ed è sotto processo penale presso il
Tribunale di Perugia, ove il procuratore capo di quella città, cons. Raffaele
Cantone, ha provveduto a contestare allo stesso Palamara anche i reati di
corruzione per l’esercizio della funzione ed il traffico di influenze illecite,
che a questo punto non riguardano più soltanto la sua vita privata, bensì
proprio i rapporti clientelari da quest’ultimo intessuti con altri colleghi, in
vista dell’ottenimento di incarichi da parte del CSM.
Siamo
dell’avviso che l’unico punto che accomuna Mario Almerighi e Luca Palamara sia
la presidenza dell’ANM, che tuttavia avvenne per soli tre giorni per Almerighi,
in quanto il Nostro rilasciò un’intervista ad una giornalista, Maria Antonietta
Calabrò del Corriere della Sera, mostrando di non gradire come possibile nomina
a Ministro di grazia e giustizia il prof. Ortensio Zecchino, che era un
associato di storia del diritto penale, preferendo a quest’ultimo il Ministro
della giustizia uscente, cioè il prof. Giovanni Maria Flick. La giornalista,
nonostante che avesse assolutamente assicurato Mario Almerighi di non
pubblicare tale notizia, invece la pubblicò. Emerse, quindi, che il Nostro avrebbe
travalicato la classica divisione dei poteri dello Stato, di montesquieuiana
memoria, per cui fu costretto a dimettersi, anche su pressione di altri
magistrati, in particolare di MD, e più in particolare ancora della dott.ssa
Elena Paciotti, che fece poi una rapida carriera negli organismi giudiziari
europei. Pur tuttavia si instaurò un giudizio civile perché fu chiesto alla
giornalista del Corriere della Sera ed all’allora direttore Ferruccio De
Bortoli di consegnare la bobina con la registrazione dell’intervista ma
entrambi si rifiutarono di consegnarla ed alla fine, costretti dall’autorità
giudiziaria, la consegnarono ma emerse da una perizia fonica effettuata sulla
bobina stessa che era stata manomessa soprattutto per quanto riguarda il
contenuto[4], per cui dopo i
tradizionali tre gradi di giudizio nel 2012 la vicenda giudiziaria si concluse
con la condanna di De Bortoli e Calabrò a 50 mila euro di danni per lesione
grave all’identità personale di Almerighi.
Nonostante
questo “incidente di percorso”, sicuramente Mario Almerighi ha rappresentato la
coscienza del ruolo istituzionale della magistratura, tanto è vero che sul suo
nome si sono verificate larghe convergenze. Il suo impegno, infatti, è sempre
stato di carattere prevalentemente ideologico e comunque nell’interesse
dell’intiera magistratura come potere dello Stato, tant’è che non si è mai
piegato a logiche correntizie.
Risulta,
invece, del tutto diversa la figura del dott. Luca Palamara, in quanto – a
parte, ovviamente, il rispetto doveroso per la presunzione di innocenza, che
deve valere anche per lui – è, al contrario, prevalso il ripiegamento
corporativo e, quindi, le peggiori logiche correntizie, caratterizzate da una
gestione clientelare e lottizzatoria degli incarichi direttivi e della
correlativa pressione sul CSM, dato che lo stesso Palamara è stato sia
presidente dell’ANM che consigliere del CSM, carica quest’ultima rivestita, a
suo tempo, anche dal presidente Almerighi.
Ciò
che, tuttavia, più rileva a questo punto è la “difesa” operata dal dott.
Palamara e condensata in un libro di grande successo editoriale, e non è un
caso, giacché, ovviamente, un libro di tal fatta non può che scatenare la
curiosità sia degli addetti ai lavori, che anche delle persone comuni. Il
volume, elaborato sotto forma di intervista[5], costituisce, a nostro
avviso, la difesa “pubblica” del Palamara, il quale utilizza un artifizio
storico-dialettico, rappresentato, appunto, dal “Sistema”, ovverosia una entità
superiore ai singoli soggetti in carne ed ossa, che tuttavia orienterebbe le
scelte della maggioranza dei magistrati e quindi anche quella del Palamara, sia
in senso positivo, sia per quest’ultimo, nel periodo più recente, anche in
senso negativo. Va da sé che questo artifizio consente al Palamara medesimo di
non fare nomi, se non in casi del tutto peculiari e, comunque, ristretti, di
coloro che lui ha aiutato per ottenere determinate cariche, così da evitare,
evidentemente in sede, prima disciplinare e, poi, processuale-penale, vendette
e/o ritorsioni.
Ciò
non toglie, però, che, almeno a nostro avviso, tale escamotage difensivo
risulta alquanto fragile perché, in realtà, non appare sussistere questa sorta
di “sistema” guidato non si sa da chi, e che invece assomiglia, se riandiamo
proprio alla storia degli anni ’80 del secolo scorso, alla figura del “grande
vecchio”, di craxiana memoria. Ebbene, a parte la sussistenza, o no, del c.d. sistema,
comunque dietro il quale si muovono persone in carne ed ossa, non c’è dubbio
che il dott. Palamara incarna un tipo di magistrato dove la gestione
clientelare e lottizzatoria degli incarichi direttivi ha costituito l’obiettivo
principale da perseguire nella sua carriera di magistrato e ciò dà, appunto,
ragione al provvedimento dell’ANM di espulsione dello stesso dalla
magistratura.
Mario
Almerighi, invece, ha rappresentato l’opposto, nel senso che, seppure,
ovviamente, ha cercato politicamente di orientare l’opinione dei suoi colleghi
verso le sue idee, ciò lo ha fatto sicuramente per far prevalere la coscienza del
ruolo istituzionale della magistratura nell’ambito di una dialettica sempre più
proficua tra i poteri dello Stato. La dimostrazione di quanto stiamo sostenendo,
la possiamo ricavare proprio da una vicenda giudiziaria emblematica del modus
operandi del presidente Almerighi, cioè lo scandalo dei petroli[6], ove a Genova tre, come si
definivano allora, “pretori d’assalto” – proprio perché intendevano
incidere sulla realtà sociale con le loro decisioni giudiziarie e non,
viceversa, chiudersi in modo tradizionale nella classica torre d’avorio – scoprirono,
tramite la Guardia di Finanza, che la rarefazione del combustile era fittizia, giacché
i contenitori di petrolio nel porto di Genova delle industrie petrolifere erano
in realtà pieni, per cui la rarefazione sul mercato del petrolio era stata però
“consentita” dal pagamento da parte delle principali industrie
petrolifere, che venivano allora definite “le sette sorelle”, di tangenti ai
principali esponenti dei partiti politici di allora. Dovendosi recare, a causa
del relativo processo per corruzione, a Roma, i tre pretori, oltre ad Almerighi,
anche Carlo Brusco e Adriano Sansa, presero un appuntamento nel 1974 con
l’allora presidente della Camera dei Deputati, l’indimenticabile on. Sandro
Pertini – che diventerà, successivamente, presidente della Repubblica nel 1978
– il quale, dopo averli ricevuti a Montecitorio, preferì parlare con loro nella
lavanderia del Parlamento, per il rischio, poi dimostratosi veritiero, di
essere controllati. Ebbene, in quella sede, il presidente Pertini li esortò ad
andare avanti “costi quel che costi”, perché anche in Sandro Pertini, come nei
tre pretori d’assalto, ha sempre prevalso la morale istituzionale,
piuttosto che cedere ad imposizioni dall’alto o, peggio, essere contagiati da
camarille di carattere politico.
È
con queste riflessioni che intendiamo onorare la figura di Colui che per noi è
sempre stato il presidente Almerighi nell’anniversario della sua prematura
scomparsa.
[1]
In argomento, per un quadro generale ed esaustivo, cfr. BRUTI LIBERATI E., Magistratura
e società nell’età repubblicana, Bari-Roma. 2018, quivi 214 ss.
[2]
BRUTI LIBERATI E., op. cit., 215.
[3]
Cfr. ZAGREBELSKY V., Tendenze e problemi del Consiglio Superiore della
Magistratura, in Quaderni costituzionali, 1983, n. 1, 128 ss.;
SENESE S., Il Consiglio Superiore della Magistratura: difficoltà
dell’autogoverno o difficoltà della democrazia?, in Questione giustizia,
1983, n. 43, 484 ss e, quivi, 503 ss..
[4]
Sul giudizio civile in questione, cfr., in particolare, ZUPO G., “I morti
apriranno gli occhi dei vivi”. Mario Almerighi e i veleni dei magistrati
corrotti e corporativi, in Critica liberale, 2018, 47 ss.
[5]
Alessandro SALLUSTI intervista Luca PALAMARA, Il Sistema-Potere, politica,
affari: storia segreta della magistratura italiana, Milano, 2021, spec. 239
ss., con riferimento ad un paragrafo non a caso intitolato: “Così fan tutti”,
che dimostra proprio che dietro il c.d. Sistema si muovono, ovviamente,
individui in carne ed ossa, ma non appare affatto giustificata la frase “Così
fan tutti” perché accomuna in una logica esclusivamente correntizia anche
magistrati, e sono la maggior parte, che non hanno mai seguito tale logica
spartitoria.
[6]
Per la ricostruzione di un protagonista cfr., appunto, ALMERIGHI M., Petrolio
e politica. Il padre di tutti gli scandali raccontato dal magistrato che lo scoprì,
Roma, 2006; ID, Petrolio e politica. Oro nero, scandali e mazzette: la prima
Tangentopoli italiana, Roma, 2014.
Prof. Avv. Adelmo Manna
Ord. dir. pen. c/o Università di Foggia